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Di Roberto Cazzanelli, padre di un giovane con autismo. Testimonianza raccolta da Maria Buzduga al seminario “Esperienze e traiettorie per la promozione della qualità di vita nella disabilità” organizzato dalla cooperativa Impronte – Febbraio 2023
Quando nasce un figlio con disabilità c’è una ferita genitoriale, un trauma che non si rimargina e con il quale bisogna imparare a convivere. Mio figlio Matteo ha cominciato a manifestare le prime forme di autismo verso i 18 mesi: da quel momento fino a quando non abbiamo avuto la diagnosi concreta, abbiamo vissuto una sorta di attesa prolungata durante la quale ci siamo aggrappati a molte speranze, generate anche da frasi comuni dei pediatri come “i bambini hanno tutti i loro tempi”. I genitori si sentono colpevoli perché hanno delle aspettative sugli sviluppi normali del bambino e sembra quasi che i problemi siano indotti proprio dai loro comportamenti ansiosi, dal fatto che il bambino desiderato non è il bambino reale.
Un figlio disabile significa anche famiglia disabile, perché la disabilità non è mai vissuta singolarmente, ma si estende ai genitori, alla coppia, ai fratelli e alle sorelle e questo porta a reazioni e dinamiche familiari le più diverse. L’interrogativo esistenziale più comune è: “perché a noi?” Lo stesso desiderio di mettere al mondo altri figli viene condizionato dalla presenza di un bambino con disabilità e, quando ci sono già dei fratelli e delle sorelle, spesso l’accudimento e le attenzioni dei genitori vengono concentrate maggiormente sul più fragile con il rischio di impoverire così la qualità del tempo da dedicare agli altri.
Insieme
Due sentimenti contrastanti accompagnano chi vive con una disabilità in famiglia: lo scoraggiamento da una parte che porta con sé senso di impotenza, ma anche, dall’altra, un’energia positiva, un attivismo che nasce dal non darsi pace nella ricerca di soluzioni per garantire la qualità di vita migliore possibile al proprio figlio. La disabilità e il coraggio di affrontarla diventano anche un tema di coppia perché di fronte a problemi che riguardano i figli, i genitori possono assumere diversi comportamenti e sentire diversi limiti. E quindi la parola che unisce tutte le sfumature di una disabilità e di una diversità è: “insieme”. Insieme, per altro, non si limita all’ambito familiare, ma si estende anche ai contesti sociali e di aggregazione, alle strutture e ai servizi dove il concetto di benessere, di stare bene insieme diventa fondamentale per le persone con disabilità e per la loro realizzazione.
L’asilo nido è stato uno dei primi contesti di confronto per Matteo, è infatti il primo luogo sociale che va oltre la famiglia e permette ai bambini di entrare in connessione con altri spazi e persone. Per noi genitori è stata la presa di coscienza della possibile emarginazione di nostro figlio; la parola suona brutale, ma ci siamo resi conto della necessità che nostro figlio aveva non solo di essere accompagnato da una maestra di sostegno, ma anche di seguire particolari percorsi educativi per soddisfare i suoi bisogni. La diversità che deve sviluppare consapevolezza e responsabilità. I limiti e le differenze con gli altri si incrementano durante il percorso scolastico e quindi richiedono di trovare un approccio e un metodo all’inclusione che facilitino la convivenza e le relazioni. Di per sé il bambino forse non vive il senso di emarginazione nella sua più totale pesantezza, ma per i genitori è un problema quotidiano da affrontare.
Dopo la primaria, Matteo ha frequentato un liceo professionale che prima di allora non aveva mai avuto esperienze di inserimento di bambini disabili. Di fronte a questa situazione, la scuola ha ritenuto necessario formare tutti gli insegnanti attraverso un percorso di conoscenza del fenomeno e di questa realtà e non limitarsi “solo” all’insegnante di sostegno. Una bella esperienza di “mettersi in gioco” in coerenza con i valori fondanti della scuola.
Conoscere
Dall’esperienza di Matteo abbiamo capito che molte volte la mancata inclusione non è intenzionale o conseguenza di povertà di valori etici; spesso alla base vi è una carenza conoscitiva della disabilità e della persona disabile. Conoscere e far conoscere la disabilità diventa un fattore importante per favorire l’inclusione e per favorire la reciprocità, perché questi ragazzi possono dare tanto se incoraggiati, stimolati e sostenuti. Da quando abbiamo deciso di investire nel far conoscere la disabilità di nostro figlio, abbiamo sperimentato una sorta di moltiplicatore di reciprocità. Questo ha portato ad uno scambio tra Matteo con le sue qualità e potenzialità e le realtà di comunità nella quali si è inserito. L’esperienza del conoscere e di relazionarsi però non va letta come una pretesa perché l’inclusione va progettata, anche con un pizzico di provocazione, ma mai pretesa. Quando si creano momenti di condivisione dove le diversità non sono l’elemento preponderante e, magari per un istante, vengono accantonate, allora compaiono le abilità della persona. E qui vi racconto l’esperienza di Matteo e il suo approccio alla musica. Anche la scuola musicale non aveva mai avuto esperienze di inclusione di persone disabili però ha voluto investire in questa direzione e aprirsi a nuovi bisogni. Così, abbiamo scoperto che nostro figlio ha una particolare abilità nel ritmo: Matteo ha imparato a suonare la batteria grazie a un coraggioso maestro di musica che con i giusti approcci e strumenti è riuscito a far emergere e valorizzare questa sua abilità, tanto da arrivare a un momento importante: suonare con altri. C’è una cosa più bella di suonare gli strumenti in un gruppo dove ognuno fa la propria parte e le diversità non solo vengono meno ma diventano armonia?
Matteo ha vissuto un’esperienza simile anche con gli scout del territorio. Tra l’altro pensare di inserire una persona con disabilità in un contesto come quello degli scout, con le loro regole “militari”, sembra difficile. E invece attraverso gocce di presenza ci siamo riusciti: prima mezz’ora, poi un’ora, quindi mezza giornata per poi arrivare a un campo di una settimana.
Progetto di vita
Dopo la scuola dell’obbligo e tutte le strutture che socialmente troviamo pronte ad accogliere questo tipo di situazioni, per la famiglia si apre un deserto accompagnato dall’interrogativo “cosa segue?”. E ancora una volta diventa importante cercare soluzioni e modalità per continuare ad incoraggiare il ragazzo ad esprimersi e a essere incluso.
Le spinte genitoriali di “allontanare” il figlio e di “lasciarlo andare” destano diverse preoccupazioni. Si parla spesso del “dopo di noi” e, anche se tendenzialmente quest’espressione non sempre piace, risponde ad una paura dei genitori. “Quando noi non ci saremo più che ne sarà di nostro figlio?”. Il “il dopo di noi” è ancor più significativo leggerlo con un “dopo di voi”, con gli occhi del ragazzo disabile che ci guarda e ci dice: “facciamo qualcosa insieme” perché c’è una sua identità che vuole sempre più esprimere senza supplenze. C’è quindi un aspetto di urgenza dell’adultità “qui ed ora” prima ancora che in un “dopo di noi”.
Quando si creano progetti di vita è necessario che questi vengano realizzati non per la persona disabile, ma con la persona disabile per renderla protagonista della sua vita seppur con i suoi limiti. Preparare il proprio figlio all’adultità diventa un imperativo perché i genitori percepiscono che il loro compito sta finendo e le loro capacità di cura non sono più soddisfacenti rispetto ai bisogni di vita e alle necessità del figlio. Occorre quindi inventare e innovare l’offerta di servizi per poter trovare delle risposte a delle scelte di vita capaci di rispecchiare la realtà del ragazzo e della sua disabilità.
E ancora una volta torna la parola “insieme”: attorno a un ragazzo con disabilità, infatti, non c’è solo la famiglia di origine, ma anche quella allargata. Matteo attualmente frequenta la cooperativa Impronte. Fa parte del gruppo “Graficamente” ed è inserito nel “Io domani”, un progetto, finanziato da “etika”, che permette di prepararsi alla vita adulta e di trovare una dimensione di indipendenza che non vuol dire “senza dipendenza”. Una vita indipendente per nostro figlio significa potersi esprimere, entro i limiti delle proprie possibilità, all’interno di strutture e accompagnato da operatori seri e preparati in grado di percepire il protagonismo e di valorizzare la persona. Tale valenza ed efficacia deve essere percepita non solo per la persona fragile e per la sua famiglia ma anche in una dimensione sociale allargata di comunità, di territorio, perché indipendenza e autonomia soddisfano anche bisogni di appartenenza nella società e nella comunità in termini anche di diritti e di qualità di vita diffusa.
Matteo è un ragazzo rock, non è un ragazzo lento. In macchina ho un caricatore di CD da 10 anni e non l’ho mai spostato perché per mio figlio il numero delle canzoni deve essere quello. C’è una canzone che a lui piace spesso ascoltare: “Senso” di Vasco Rossi. “Voglio trovare un senso”, canta Vasco. Le diversità, le disabilità, sono incubatori di senso.
I nostri familiari con disabilità ci insegnano ad essere noi stessi, perché loro vogliono essere loro stessi; a misurare la vita e a viverla con misura; ci mostrano che non esistono solo le parole per comunicare, ma ci sono anche altri linguaggi; ci aiutano ad imparare la semplicità e a cogliere l’essenzialità della vita.
Chiudo con la citazione del libro di Giuseppe Pontiggia, “Nati due volte”, perché chi vive una disabilità nasce due volte: “la prima li vede impreparati al mondo, la seconda è una rinascita affidata all’amore e all’intelligenza degli altri e questa seconda nascita dipende da noi e da quello che sappiano dare a loro “.
Testimonianza di Francesca Oss, educatrice della cooperativa sociale CS4 – Aprile 2020
Dopo 13 anni come educatrice di minori, ho deciso di cambiare ambito e di occuparmi di persone con disabilità e fragilità psichica. Da un lato volevo mettermi di nuovo in gioco, dall’altro pensavo non fosse un vero e proprio salto nel buio; ero convinta, infatti, che le finalità di un educatore siano le stesse indipendentemente dalle persone di cui si occupa e cioè sostenere l’autonomia, l’autostima, la responsabilità, l’inclusione.
La nuova esperienza è stata umanamente molto bella: ho costruito relazioni significative e profonde sia con i colleghi, sia con gli ospiti, che coltivo anche ora che non lavoro più lì. Professionalmente però non è stato facile: mi sembrava di aver fatto un salto indietro nel tempo e di essere finita in una comunità, certo molto solidale, ma isolata dal resto del mondo. C’era una grande attenzione alla cura e all’assistenza degli ospiti, ma la loro autonomia, che pensavo si dovesse sostenere, era invece ridotta al minimo. Alcuni ospiti, molto pochi, rientravano a casa nel fine settimana, la maggior parte rimaneva lì 24 ore su 24, 7 giorni su 7. La vita aveva ritmi precisi, uguali per tutti: sveglia, pranzo, cena, laboratori, igiene personale, sonno. Tutto scandito, ora per ora. Un anno dopo ho fatto un altro salto nel tempo: sono andata a lavorare nell’appartamento domotico della CS4, che è un po’ l’embrione dei progetti sull’abitare inclusivo per persone con disabilità avviati dalla cooperativa con il sostegno di etika. Appena arrivata sono rimasta senza parole: in quella casa vivevano e vivono Edoardo, Mirta e Carla, tre persone con disabilità cognitive e fisiche diverse, ma simili a quelle ospitate nell’istituto, e ci vivono in autonomia: fanno la spesa, cucinano, e ancor prima decidono cosa mangiare! La mattina escono per andare a lavorare in un centro occupazionale o a fare attività laboratoriali educative in centri della cooperativa e alle 16 tornano a casa. Ognuno gestisce le proprie cose – ad esempio la camera da letto – e poi hanno compiti che condividono come cucinare, pulire, stirare. L’appartamento è dotato di una serie di ausili tecnologici che facilitano la gestione della casa. Hanno rapporti amichevoli con i vicini e una vita anche fuori casa e fuori dai centri della cooperativa: vanno a mangiare la pizza con gli amici o a teatro, fanno volontariato.
Noi educatori siamo lì un paio di ore al giorno (un po’ di più nei fine settimana), poi se hanno bisogno posso chiamarci a qualunque ora, e abbiamo principalmente un compito di osservazione e di sostegno, quando serve.
L’autonomia che hanno raggiunto e che all’inizio mi sbalordiva è frutto di un lungo lavoro di training fatto dagli educatori che li hanno seguiti prima di me e che, ad esempio, hanno insegnato loro a alcune ricette base attraverso l’uso di immagini; ricette che ripetute più volte sono diventate procedure acquisite e naturali. L’approccio alla cucina è stato adottato per tutte le altre abilità e competenze necessarie a vivere in autonomia: ogni compito, cioè, è stato suddiviso in tante piccole azioni rappresentate attraverso il linguaggio delle immagini in modo da facilitarne la comprensione, poi la ripetizione aiuta la memorizzazione e la trasformazione in automatismi. Ma non è solo una questione di abilità, ma anche di relazioni: Edoardo, Mirta e Carla sono diventati una famiglia e così si definiscono.
Per loro quell’appartamento, formalmente della cooperativa, non è un servizio che frequentano, è la loro casa, sul campanello c’è il loro nome e io suono sempre quando arrivo e aspetto che mi aprano. Sono io l’ospite, non loro.
Testimonianza di Liliana Carotta – Dicembre 2018
È bella, vero, la mia Enia?
Qui è il 1958. L’altro è suo fratello Michele, qualche tempo dopo è arrivato anche Agostino. Mi sono accorta presto che era diversa dai fratelli, diversa dagli altri bambini. A tre anni non parlava ancora, diceva solo “mama, papa”, “mama, papa”, quelle parole così. Allora da Folgaria sono scesa a Trento, l’ho portata da un pediatra bravissimo. Così dicevano. “Secondo me la bambina sta bene, non ha niente, la porti all’asilo e vedrà che in mezzo agli altri bambini imparerà a parlare”.
Non si è accorto di niente, come tanti medici dopo di lui. L’ho portata al nido, ma dopo un paio di giorni la maestra mi ha detto che dovevo ritirarla.
“Non posso tenerla, graffia gli altri bambini, sono tanti, non posso stare dietro solo a lei”.
È vero Enia era vivace, qualche volta un po’ aggressiva forse; oggi non lo si direbbe: è tutta baci, abbracci e coccole. Mi dispiaceva tanto che non stesse con gli altri bambini, ma… pazienza. Ogni tanto chiedevo la visita all’OMNI a Trento, per controllarla, per vedere di capire cosa aveva. Le assistenti sociali e i dottori le mettevano davanti dei giocattoli: doveva riempire delle caselle, ma niente, non ce la faceva. Aveva imparato qualche parola in più, ma non si esprimeva bene – neanche adesso lo fa – anche se le orazioni le sapeva ripetere a memoria, tutte. Quando Enia ha compiuto 6 anni, l’ho mandata a scuola. Avevo la fortuna di conoscere una maestra delle elementari.
“Se la tase, la sta ferma nel banco e non la me disturba, la putelota la tegno mi”.
Però anche questa è andata male, la maestra l’ha tenuta per un po’, ma Enia non stava mai ferma. Anche quando era casa era come una biscia, scappava sempre, andava nel parchetto qui vicino e su e giù sulle altalene, su e giù, su e giù. Quando Enia aveva ormai 9 nove anni, mio marito ed io abbiamo sentito dire che in Veneto c’era una scuola differenziale, e allora l’abbiamo mandata là dalle suore. È rimasta un paio di anni. Tornava d’estate e a Natale. Dopo hanno aperto un istituto più vicino. Era propri agli inizi; sono andata a vedere, ma non me la sono sentita; povere creature, erano gravi, non come Enia. Enia è bella. Dio mio il quoziente sarà stato anche basso, bassissimo, ma non era grave come quelle povere creature.
E così è stata sempre con me fino a quando qualche anno dopo non ci hanno chiamato da Trento e mi hanno detto che anche qui da noi avevano aperto una scuola differenziale. Si! Si! volevo questo per lei.
A casa le davo un quaderno e perché si distraesse le disegnavo una casetta e poi scrivevo la parola casa, oppure fiore, o nuvola e lei le copiava un numero infinito di volte: casa, casa, casa, casa; fiore, fiore, fiore; nuvola, nuvola, nuvola... Pensavo se la mando in una scuola adatta a lei starà meglio. Siamo andati dalle suore a chiedere; ci hanno detto che ce la prendevano. Le ho preparato il corredino con i numeri che ci avevano dato da attaccare ai suoi vestiti. Qualche tempo però mi hanno detto: “No! Leggere, scrivere, imparare i numeri, per Enia è troppo difficile; una montagna impossibile da scalare.” Non capiva, non ci arrivava a capire, non riusciva, non riusciva proprio. Chissà, forse se l’avessi mandata prima. Pazienza.
Alle suore ho chiesto che allora la portassero in cucina con loro, così imparava a lavare i piatti, ad asciugarli, a pulire i pavimenti, insomma qualcosa di utile che le potesse servire più che fare il mezzo punto di ricamo. Però Enia non era contenta, veniva a casa 15 giorni ad agosto e 10 a natale. In realtà ogni volta si fermava più di un mese. Riportarla era un problema. Voleva dormire a casa, con me. Non ci voleva tornare e quando era là cercava di scappare. Una volta è saltata dalla finestra e si è rotta un ginocchio e da allora non più stata bene, quel ginocchio anche oggi la tormenta nonostante le infiltrazioni che continuiamo a fare. Una volta è tornata con un sacchettino che le avevano dato le suore: era pieno di pastiglie rotonde, bianche e lucide con una croce in mezzo. Le avevano tagliate a pezzetti e mi hanno detto che dovevo dargliene una la mattina e una la sera prima di andare a letto. Quando glielo data la prima volta dopo colazione lei si è addormentata sulla tavola e ha dormito fino a mezzogiorno. E allora mi son detta no! Piuttosto che vederla dormire così, la lascio saltare, correre, andare sulle altalene, su e giù; che faccia quello che vuole. Non era giusto farla dormire in quel modo. Si vede che là usavano quelle pastiglie per farli stare calmi, forse ce n’erano alcuni agitati. Mi hanno detto che ora è diverso.
Mio marito ed io comunque ci siamo detti: riprendiamocela con noi. Era il 1976 ed Enia aveva 20 anni. Ed è stata giorno e notte con me fino al 1992. All’inizio c’era anche mio marito che però è morto improvvisamente nel 1984; gli altri miei figli poco dopo si sono costruiti la loro famiglia e sono andati. Siamo rimaste Enia ed io in quell’albergo che aveva costruito mio marito con sacrifici incredibili. Era il suo sogno. Solo che l’ha costruito in mezzo al nulla. In realtà la zona è bellissima, ma fuori mano, non ci sono piste da sci, impianti, niente, e così la stagione dura pochissimo.
Un’amica ha cominciato a dirmi: “Perché non mandi Enia a Rovereto, hanno fatto un bel centro si chiama il ponte, c’è anche mia figlia. Se la mandi vengono a prenderla con un pulmino.” Ma ero sola in quell’albergo in mezzo al bosco ed Enia e io ci facevamo compagnia.
Però poi è successa una cosa, una cosa che mi ha aperto gli occhi. Era il 1992 e dovevo farmi operare ai calcoli e rimanere 8 giorni in ospedale. La dottoressa mi ha chiesto: “Ed Enia? con chi sta?”. Io ero tranquilla: “mi sono messa d’accordo con uno dei miei figli che vada là a pranzo e a cena per farle da mangiare e a dormire nell’albergo con lei. Per il resto Enia si arrangia a vestirsi e a lavarsi.” Ma la dottoressa mi ha risposto: “Ora può essere così, ma deve pensare ai suoi figli. Noi non viviamo mica per sempre”.
E ho cominciato a pensare. E se mi succedeva come a mio marito di morire da un giorno all’altro? Cosa avrebbe potuto fare Enia? Dio mio! E così sono andata a vedere la centro Il Ponte. La direttrice e gli operatori mi hanno accolto bene, mi piaciuto il posto. Non era certi però che il servizio potesse accogliere la mia richiesta di iscrizione perché Enia non era giovane come gli altri ospiti, aveva 32 anni!
“Provate a fare la domanda, se non va, Beh pazienza”.
Un giorno è squillato il telefono – erano i primi giorni di ottobre -e mi hanno detto che sì, che era andata bene, che la domanda era stata accolta. Ho chiamato subito l’addetto ai trasporti per chiedergli se poteva passare la mattina dopo a prendere Enia. Siamo andate giù insieme. Entrare dentro è stato difficilissimo; Enia aveva paura che l’avessi riportata all’istituto, ed è scappata in mezzo ai campi. A forza di dai e dai si è convinta. I primi giorni stavo sempre insieme con lei. Poi ho cominciato ad aspettarla fuori dalla porta della stanza, poi piano piano ho potuto allontanarmi qualche ora, finché si è convinta. Ogni sera le dicevo “Lo vedi Enia che vieni a casa a dormire? lo vedi Enia? Domani vai da sola? io resto a casa e ti aspetto, ti preparo la torta e ti stiro i vestiti”. Alla fine un giorno mi ha detto di sì, è salita sul pulmino da sola ed è andata. E io l’ho guardata andare pensando chissà. Al centro stava bene e aveva capito che ogni sera sarebbe tornata a casa a dormire con me.
Poi mi è capitato di nuovo di dover andare via per un po’ per curarmi. Il centro poteva seguirla durante il giorno, ma la notte? Ho chiesto che la ospitassero nelle strutture dedicate. ma lei scappava. Scappava dalle finestre, si nascondeva dietro le macchine. E io ho pensato alle parole della dottoressa “Non viviamo mica per sempre!” e ho capito che c’era ancora strada da fare. Ho cominciato a cercare se c’era una possibilità di insegnarle a dormire fuori casa, non solo e sempre con me. Ho parlato con i servizi a Rovereto e Trento. C’è stato chi mi detto “ma perché si preoccupa tanto, in Folgaria avete una bellissima casa di riposo.” Ed è vero sapete, è proprio bella. Ma è un posto per anziani. Chissà forse loro si preoccupavano che se Enia fosse andata a vivere a Rovereto poi avrei fatto fatica ad andare a trovarla. Gli anni passano anche per me. Poi mi ha chiamato Il Ponte e mi ha parlato di un nuovo progetto che la poteva aiutare. È stato lento: prima Enia ha conosciuto gli altri compagni di appartamento e l’educatrice; hanno cominciato ad uscire insieme, a fare la spesa e andare nella casa nuova a prepararsi il pranzo e a mangiare. Poi hanno provato a stare là insieme un fine settimana, e poi un altro. E sapete: Enia, è felice! La mattina quando deve andarci, la trovo già pronta con la valigia in mano e quando torna a casa è felice, non smette più di parlare. Qualche volta la sera mi ha chiesto mamma: “ma io posso stare ancora qui con te?” E io le rispondo che questa sarà per sempre casa sua, ma poi le chiedo “sei stata bene nel nuovo appartamento con gli altri?” E lei mi risponde sempre sì. “Allora vedi Enia puoi stare là e, quando hai voglia, tornare qualche giorno qui con me.” A 84 anni so che finalmente Enia dorme sola.
Scusate, ora devo andare. Enia sta per tornare, anche se non so mai di preciso a che ora arriva, dipende dal traffico. Il pulmino si ferma qui davanti a casa.
Piove, scendo ad aspettarla con l’ombrello.
Testimonianza di Annamaria – Ottobre 2018
“Elio è nato in aprile 47 anni fa. All’ospedale non hanno capito, ma io me ne sono accorta presto che c’era qualcosa che non andava. Elio non parlava e quando ha cominciato pronunciava male le parole. L’ho portato dalla logopedista, per anni ogni mattina prima di accompagnarlo all’asilo, ma non è servito a molto. Il dottore alla fine ci ha detto che era il cervello bloccato, le cellule lì dentro la testa che non funzionavano. È andato a scuola – ha fatto le elementari e le medie – con l’insegnante di supporto, ma non l’ha aiutato tanto. Credo che ai quei tempi non fossero tanto preparate e forse non lo hanno seguito nel modo giusto. Una maestra di un’altra classe mi ha detto che sentiva Elio battere i piedi sul pavimento e le mani sul tavolo per attirare l’attenzione. Gli ho fatto fare anche un anno in più di scuole medie per vedere se si riusciva a recuperare qualcosa. Ma alla fine non sa né leggere né scrivere; non conosce i numeri e quindi ad esempio non capisce l’ora sull’orologio. E questo rende complicate tante cose anche semplici della vita di tutti i giorni. È comunque un ragazzo responsabile e forte; che sa lavorare anche bene se gli si spiega cosa deve fare. Ha fatto tanti tirocini in diverse aziende e in cooperative. Adesso oltre ad aiutare qualche volta nella ditta di suo fratello, è impegnato nel progetto della Rete “Tutti nello stesso campo!”, coltivano un terreno a Seregnano e poi vendono i prodotti al mercato. L’anno scorso mi ha detto: “mamma voglio andare via di casa. Mi compro un appartamento qui vicino.” Aveva visto che altri giovani come lui seguiti dalla cooperativa La Rete lo avevano fatto. Io sapevo che non sarebbe stato facile ma l’ho incoraggiato: gli ho detto: “si Elio vai!” A tutti i miei figli ho lasciato la libertà di decidere la loro vita. Quindi anche Elio aveva il diritto di farlo. E poi io ho ottant’anni e ho avuto anche problemi di salute negli ultimi tempi. Nella vita non ci si può piangere addosso, si deve fare quel po’ che si può e quel po’ dà serenità. Ho avuto tante paure per Elio, ma se le facevo venire fuori non avrei risolto nulla e finivo per spaventare anche lui.
In fondo ero abbastanza tranquilla, perché aveva già fatto alcune esperienze: delle settimane con il progetto “provo di volo” e poi a L’Aquila alcuni mesi nel momento della ricostruzione dopo il terremoto. Certo era là con suo fratello, ma comunque per la prima volta si è staccato da me per molto tempo.
Quindi è andato: da qualche mese ha iniziato il percorso per l’autonomia che oggi grazie alla bolletta etika potrà continuare. Vive con Mamudou (ndr l’accogliente*) in un appartamento messo a disposizione dai frati. Viene a casa nei fini settimana per stare con me vedere i fratelli e i nipoti.
Quando non si sanno leggere i numeri anche cose semplici diventano complicate: per fare la lavatrice bisogna capire le cifre dei programmi e le temperature o per farsi un piatto di pasta bisogna pesare sulla bilancia e controllare i minuti di cottura. Quando era a casa con me gli ho insegnato a misurare con il pugno e poi ad assaggiare. Se poi alla fine la pasta è un po’ troppo cotto o cruda, il giorno dopo andrà meglio. Altre cose gliele stanno insegnando quelli della Rete: ad esempio per prendere farmaci negli orari giusti usano un dispenser con indicati i vari colori. Poi si muove con l’autobus e anche lì… Per fortuna però ha un grandissimo senso dell’orientamento: mostrandogli una volta il percorso poi lui lo ricorda.
So che potrà avere delle difficoltà, perché sono tante le sue lacune, ma ho fiducia che el se desribigherà. In pochi mesi è già cambiato, o forse ha tirato fuori cose di sé che prima non mostrava: in tanto è meno permaloso, poi se una volta bisognava tirargli fuori le parole dalla bocca con le pinze, ora invece chiacchiera e chiacchiera; chiede di questo e di quello perché vuole sapere. È impressionante! io lo guardo e penso sorridendo: figlio mio dove sei stato fino adesso?
Annamaria è la mamma di Elio protagonista di uno dei progetti finanziati da etika da settembre 2018. Testimonianza raccolta da Silvia De Vogli
*L’accogliente è una persona che dopo un percorso formativo accompagna e sostiene le persone con fragilità e rientra nell’ambito di progetti del Comune di Trento e del Centro di Salute mentale che negli ultimi anni hanno coinvolto anche la cooperativa La Rete.
Marzo 2018
Stefano a 36 anni ha lasciato la casa dove viveva con i genitori ed è andato a vivere da solo, o meglio con un coinquilino. E questa sarebbe una notizia? Non lo dovrebbe essere. Ma oggi è ancora straordinario che una persona con disabilità in particolare cognitiva come Stefano possa vivere in autonomia, nonostante questo sia un diritto sancito dalla convezione ONU per le persone con disabilità. Un testo internazionale recepito anche dall’Italia che richiede il “rispetto per l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte e l’indipendenza delle persone…”, in particolare “il diritto di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere”. Questo diritto per Stefano sta diventando effettivo, reale mentre altre persone con disabilità e le loro famiglie non riescono nemmeno ad immaginarlo. Un cammino verso l’autonomia, verso la scelta con chi e dove abitare, il desiderio di poter gestire la propria casa, di vivere la quotidianità. La storia di Stefano dimostra che è possibile sperimentare un’idea di abitare “normale” opportunamente sostenuti dalla comunità. Etika ha scelto di supportare questa idea di abitare e tutti i progetti che si muoveranno in questa direzione selezionati e accompagnati dal comitato scientifico.
Tre anni fa Stefano si è trasferito a Villa San Ignazio, la primavera scorsa è andato a vivere in un appartamento della cooperativa La Rete al Convento dei Padri Cappuccini a Trento assieme ad un ragazzo senegalese. Il Convento ha aperto le porte infatti ad altre realtà oltre a quelle già presenti con l’obiettivo, spiega il responsabile Fra Massimo “di far vivere il convento di vita vera e autentica nell’accogliere persone che hanno qualche difficoltà nella gestione autonoma della propria casa.” Così Stefano dopo un’esperienza comunitaria, ha iniziato grazie ad etika a sperimentare una nuova dimensione di abitare, una casa sua, assegnata dall’Itea nella periferia della città. Un percorso sempre più focalizzato sull’ autonoma delle scelte compresa quella della persona che convive con lui. “Mi trovo bene con il mio coinquilino, ci aiutiamo a vicenda, facciamo da mangiare, puliamo casa” continua Stefano. Reciprocità a favore di una maggiore autonomia di entrambi, perché anche l’accogliente, da Stefano impara la lingua italiana, a condividere la quotidianità con qualcuno da quando è arrivato in Italia, circa 7 anni fa. Il ragazzo senegalese col sorriso rivela che Stefano si arrabbia facilmente, soprattutto quando ha fame, ma altrettanto velocemente gli passa; ; oggi, rispetto all’inizio dell’esperienza di coabitazione, Stefano è più autonomo nella gestione della casa, nel cucinare, nel fare le pulizie e riordinare. Attività impensabili fino a ieri, ma oggi dimostra di avere una forte motivazione alla vita autonoma, di una maggiore fiducia in se stesso e nelle persone che lo aiutano, migliorando le sue capacità relazionali. Mantiene con più costanza gli impegni anche per la gestione della casa e lo conferma il suo coinquilino. Stefano apre la porta della nuova casa con il sorriso, orgoglioso del suo traguardo, ci fa ammirare dal suo balcone il panorama dal paese ammettendo che non avrebbe mai pensato di arrivare fino a lì, e confessa che un giorno, in futuro, potrebbe anche vivere da solo.
Stefano continua a svolgere le sue attività durante il giorno: infatti alterna un tirocinio formativo presso un locale di Trento come aiuto in cucina, con la frequenza di un centro socio occupazionale della cooperativa sociale CS4, ricevendo una piccola borsa lavoro che gli permette di sostenere una parte delle spese quotidiane, oltre all’assegno di invalidità. Nel tempo libero segue attività a Villa Sant’Ignazio e alla cooperativa La Rete e coltiva i suoi hobby, il canto, la raccolta di almanacchi di figurine, il calcio e le partite con i videogiochi. Alle volte la sera assieme al suo coinquilino va a concerti di musica africana. L’accompagnamento nel processo di autonomia abitativa parte dall’autodeterminazione di Stefano, e dalla condivisione con tutti i soggetti coinvolti dei principi dell’adultità e dall’inclusione sociale, sono molti infatti i soggetti coinvolti: oltre all’accogliente, altri soggetti del territorio come l’amministratore di sostegno, il servizio sociale, le persone vicine a Stefano e l’equipe della cooperativa sociale de La Rete che ne è responsabile del progetto abitativo.
La quotidianità diventa oggetto di relazioni vitali dal valore aggiunto, quando, come in questa esperienza, si generano opportunità e benessere. Questo uno dei principali obbiettivi anche degli altri progetti finanziati dal Fondo Solidale di etika che coinvolgono, oltre alla cooperativa sociale La Rete, CS4, Eliodoro, Il Bucaneve.
Una nuova via è possibile – Novembre 2016
Erano in molti ad attenderla, in particolare i tantissimi genitori di persone con disabilità che pensano, spesso con angoscia, a cosa accadrà quando loro non ci saranno più. Ed ora finalmente il “dopo di noi” è legge. O quasi. La normativa “volta favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia” è stata approvata dal Senato a fine maggio e il via libero della Camera dovrebbe arrivare entro poche settimane. La legge introduce diversi strumenti: dal trust (strumento che garantisce protezione legale tramite rapporto fiduciario tra chi lo possiede beni economici e chi li gestisce) ad una nuova regolamentazione delle polizze assicurative, delle imposte sulle donazioni e su altri tipi trasferimenti a causa di morte.
La legge istituisce anche un fondo che finanzia, tra le altre cose, interventi innovativi per creare soluzioni di tipo familiare e di co-abitazione Abitare infatti, non è tanto e solo questione di muri, ma di progetti di vita e di relazioni legate alle biografie individuali. Riferimento principe della nuova legge è la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, e in particolare l’articolo 19 che sancisce l’impegno degli Stati affinché si dia anche a queste persone la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza, dove e con chi vivere e non le si obblighi ad adattarsi a particolari sistemazioni. Il riferimento alla Convenzione è tutt’altro che scontato e formale, come sottolinea Carlo Francescutti, coordinatore dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, recentemente ospite a Trento del convegno sul tema “Disabilità e comunità” organizzato dalla coop sociale La Rete in collaborazione con Con.Solida, il Comune di Trento e altri enti. “Le ricerche epidemiologiche e sociali più recenti – afferma Francescutti – dimostrano che le persone con disabilità sono ancora fortemente discriminate, basti pensare che quelle problemi intellettivi hanno un’aspettativa di vita di 10 anni inferiore al resto della popolazione e un rischio 10 volte maggiore di subire abusi o violenze.
Ancora oggi in quasi tutti i Paesi faticano a ricevere cure primarie di prevenzione adeguate. Circa il 25% di loro sviluppa problemi comportamentali, dato che sale al 70% nelle istituzioni tradizionali residenziali. La Carta dell’Onu è importante perché ricorda che le persone con disabilità hanno una legittima attesa di vedersi riconosciute come cittadini alla pari degli altri ed esorta a costruire le condizioni per una società più giusta”. Non è un caso che nel documento internazionale il termine riconoscimento sia il più ricorrente (ben 45 volte), dall’altro che la definizione di disabilità si riferisca ad una menomazione fisica, psichica o intellettiva che in interazione con le barriere genera una disuguaglianza. “Ancora più importante – secondo Francescutti – è che la Carta non si rivolge solo agli Stati, ma anche ai singoli cittadini: senza un cambiamento nella relazione tra le persone non ci sarà nessun progresso politico, istituzionale e sociale”. In questo contesto la legge sul “dopo di noi” rappresenta un fondamentale tassello di un processo di cambiamento che deve essere più ampio e culturale.
In particolare, secondo Francescutti occorre superare l’atteggiamento paternalistico ancora troppo diffuso nei servizi ma anche nelle famiglie delle persone con disabilità che cercano in tutti i modi di proteggere i figli disabili. Un atteggiamento – quello di cercare di risparmiare a persone già fragili, dolori, fatiche e il peso delle decisioni – che parrebbe normale e che invece secondo l’esperto produce grandi danni perché finisce per collocarle in un limbo senza via di uscita, in una vita non autentica. “Il prezzo da pagare per la persona disabile è altissimo: finisce in un “mondo a parte” in cui il suo parere non è richiesto e se non si adatta vuol dire che è lei a non funzionare e quindi bisogna incrementare il controllo e la costrizione. Gli esiti estremi di questo approccio sono un uso spropositato di psicofarmaci e il confinamento in strutture da cui emergono storie di contenzione o di affiancamento uno a uno. Naturalmente ci sono forme di paternalismo più leggere come la commiserazione venata da tratti solidaristici”. L’antidoto per Francescutti è proprio è la condizione di uguaglianza richiamata dalla Convenzione Onu che fa da sfondo alla nuova legge e intorno alla quale si stanno sviluppando progetti pilota ed esperienze di accompagnamento all’autonomia come quelli delle cooperative sociali aderenti al laboratorio di innovazione sul “dopo di noi” attivo da 2 anni all’interno del consorzio Con.Solida “I diritti – afferma però Maurizio Colleoni, responsabile scientifico della rete Immaginabili Risorse anche lui ospite al convegno della coop La Rete – si possono esercitare quando si creano le condizioni per renderli esigibili.
Oggi si pensa alle persone con disabilità spesso come utenti passivi di servizi di welfare. Una conquista rispetto al passato quando erano considerate pericoli o misteri da escludere che però oggi è diventata un limite perché da un lato palesa l’idea che serva professionalità per gestire quella persona, dall’altro significa comprimerla, vederne solo un pezzo, costruire relazioni assoggettanti “. Per Colleoni i servizi oggi devono offrire supporto all’emancipazione, proporsi come scuole di vita per ridare alla comunità le persone disabili. Soprattutto devono essere luoghi che si pongono continuamente il tema della qualità della vita del loro territorio. Diventare sostenibili in forma di muta utilità coinvolgendo i diversi soggetti locali: famiglie, istituzioni e gli altri attori territoriali. “La fragilità – sottolinea l’esperto – fa parte della condizione umana anche se cercano di convincerci del contrario. In questo senso la disabilità che è un limite, ci fa vendere l’umano nella sua pienezza. Compito degli operatori è espandere la visione della normalità in modo da consentire a tutti di essere a proprio agio nella propria pelle. D’accordo anche Francescutti: “abbiamo un grande compito, intrecciare dei destini, costruire avamposti di umanità dove si evidenzi e si dia testimonianza della ricchezza dell’umano e opportunità di speranza per tanti. Se lo facciamo per le persone con disabilità intellettiva lo possiamo fare anche per altre situazioni di vulnerabilità che attraversano la nostra comunità”.
A poche settimane dall’approvazione della legge sul Dopo di noi a tutela delle persone con disabilità, Daniela Cordara racconta la sua storia e quella del figlio Andrea – Novembre 2016
Avevo 30 anni quando è nato Andrea, dopo 3 è arrivato Luca e Andrea ancora non parlava, emetteva solo suoni gutturali. Ha pronunciato la sua prima parola – Aghi, il nomignolo con cui lo chiamava il fratellino – quando di anni ne aveva 5. Io ero in un’altra stanza sono corsa da lui, ci siamo guardati negli occhi e siamo scoppiati a ridere.
Già molto tempo prima avevo capito che qualcosa non funzionava e avevo iniziato con mio marito ad interpellare neuropsichiatri e altri specialisti. Tac, risonanze, esami di ogni tipo. Per anni è stato un peregrinare inutile: nessuno sapeva darci una risposta, o meglio molti imputavano le difficoltà di Andrea ad un disagio psicologico e al fatto che io fossi una madre troppo ansiosa che non gli lasciava spazio per sperimentare e acquisire autonomia. Ma io sapevo che non era così, che ci doveva essere qualcosa di organico. Non ci siamo arresi. Andrea ha iniziato percorsi di psicomotricità e logopedia e nel frattempo io mi dedicavo alle ricerche sulla sua ancora misteriosa patologia. In fondo in fondo, non posso negarlo, c’era la speranza che esistesse una soluzione, ma l’obiettivo principale del mio cercare ostinato era capire come farlo vivere bene. All’epoca facevo la traduttrice e ho cominciato a consultare riviste scientifiche di ogni tipo. Passavo ore e ore in biblioteca. Poi negli anni 90 abbiamo acquistato un computer e si è aperto il mondo. Ho scritto ad un centro di ricerca negli Stati Uniti che ci ha indirizzato al istituto auxologico di Milano. Andrea aveva 8 anni quando finalmente è arrivata la diagnosi: un’anomalia genetica rara (ha un cromosoma 1 con un pezzo infinitamente piccolo in meno) che sostanzialmente si traduce in una disabilità di tipo cognitivo, un impaccio motorio e problemi di linguaggio.
E ora che lo so, mi sono chiesta, con chi ne parlo? Il primo istinto è cercare qualcuno che sta vivendo la tua stessa esperienza, che possa capirti e magari darti informazioni. Una sindrome rara, però, significa non avere nessuno da contattare. Mi è venuto in aiuto di nuovo il pc: ho scoperto un’associazione inglese di genitori il cui scopo era proprio mettere in relazione le famiglie con figli con anomalie cromosomiche rare simili. Grazie a loro sono riuscita a mettermi in contatto con altre 5 mamme in tutto il mondo. Sono passati decenni, ma continuiamo ancora adesso a scriverci. La prima cosa che abbiamo fatto è costruire una descrizione delle caratteristiche del comportamento dei nostri figli per aiutare poi chi fa ricerca ad orientarsi ed approfondire. A noi si sono aggiunti altri genitori: oggi in Inghilterra sono circa 200 e ogni anno fanno una conferenza in cui ospitano studiosi da tutto il mondo.
Intanto Andrea cresceva accompagnato dalla buona stella sotto la quale è nato: allegro, capace di adattarsi, con una voglia di condividere e di stare con gli altri; una famiglia e una comunità (il piccolo paese di Martignano) accoglienti. In realtà io all’inizio ero arrabbiata col mondo; quante volte mi sono detta: perché è toccato a me? So di essere stata spesso arrogante e aggressiva, soprattutto nella scuola, perché avevo paura che isolassero Andrea. Ma alla fine ero io che mi isolavo insieme a mio figlio. Vedevo gli sguardi delle persone e mi sembravano inquisitori o infastiditi. Mi ci è voluto del tempo per capire che dovevo permettere agli altri di accogliere mio figlio e perché ciò accadesse dovevo farlo conoscere. Non è stato facile: Andrea a volte fa dei versi o all’improvviso, se vuole qualcosa o si arrabbia, si mette ad urlare; se capita in un luogo pubblico ti senti decine di occhi addosso. All’inizio ero imbarazzata, mi sembrava di dover chiedere scusa. Ma poi ho capito che non c’è nessun motivo per farlo; che occorre invece aprirsi e presentare anche le persone con un comportamento diverso da quello normale o convenzionale. Se penso alla scuola, ad esempio, non sono certo mancati gli scontri, ma ho anche incontrato insegnanti eccezionali che hanno saputo coinvolgere la classe facendo sì che tutti si sentissero responsabili di Andrea. I suoi compagni non lo hanno mai dimenticato per le feste e i compleanni. Certo poi i bambini crescono, diventano ragazzi e gli interessi cambiano: ci sono i primi amori, le moto… Finita la scuola media Andrea ha frequentato un percorso per operatore nel verde che lo ha aiutato ad acquisire autonomia; poi dopo avere provato diverse esperienze ha scelto – lo ha scelto lui – di lavorare il legno nel centro della cooperativa Laboratorio sociale. La distanza con i coetanei intanto si era ampliata e Andrea era sempre più solo. È stato in quel momento che ho scoperto la cooperativa la Rete che gli ha dato la possibilità di vivere esperienze dentro la comunità, non in un luogo a parte. E di farlo con altre persone disabili, ma anche operatori, volontari, molti dei quali giovani.
Oggi Andrea ha 28 anni, vive ancora con noi. Lavora – anche se per un tempo limitato legato alla sua capacità di concentrazione -, partecipa alle diverse attività proposte da La Rete. Il futuro è un’incognita. Io lo immagino in un ambiente in cui tutti possano tutti capirlo, dove possa comprarsi il pane, parlare con il giornalaio, insomma vivere nella comunità e non rinchiuso in un istituto o in una casa famiglia. Ma è una prospettiva di vita da costruire insieme ad Andrea.
Posso farcela da solo anch’io – Novembre 2016
Il 14 giugno è una data che molte famiglie ricorderanno, è stata infatti approvata la legge sul cosiddetto “dopo di noi”, un segno tangibile nel garantire i diritti delle persone con disabilità, un passo importante che consente anche ai loro genitori di guardare al futuro con serenità.
La norma tra le tante innovazioni prevede l’istituzione di un Fondo che finanzia interventi finalizzati a creare opportunità abitative di tipo famigliare e di co-abitazione. Perchè la legge, che ha richiesto tempi lunghi di approvazione, entri a pieno regime servono ancora dei passaggi come ad esempio l’individuazione dei requisiti di accesso alle misure di assistenza, cura e protezione a carico del Fondo e la definizione degli obiettivi di servizio per le prestazioni da erogare.
Nell’attesa – della legge prima, della sua attuazione ora – in molti territori del Paese la società civile, famiglie, cooperative, si sono comunque già attivate con progetti sperimentali che guardano all’abitare non solo come una questione di muri e spazi, ma come un progetto di vita, come un cammino fatto di relazioni, come un percorso che coinvolge potenzialmente tutta la comunità.
Tra queste realtà c’è La Rete con l’appartamento a Trento Nord, in cui sono andati a vivere insieme Nicola, Christian e Moreno, tre giovani adulti con disabilità cognitiva. Il progetto è stato possibile grazie al contributo di molte organizzazioni, tra queste Dolomiti Energia Basket Trentino e i suoi partner che hanno messo a disposizione risorse per l’acquisto degli arredi. Nicola, Christian e Moreno hanno vissuto l’esperienza con entusiasmo fin dal giorno dell’inaugurazione, quando l’emozione per questo nuovo inizio era palpabile. In questi mesi i giovani hanno condiviso la loro quotidianità: dall’alzarsi la mattina e fare colazione, all’organizzare cene con amici e volontari, da prendere il giornale a coordinarsi per le pulizie fino al ritrovarsi la sera dopo il lavoro. I loro caratteri molto diversi (uno più introverso, un altro euforico, uno molto preciso) non hanno impedito di rafforzare la loro amicizia, in una convivenza che ha arricchito le loro vite con la creazione anche di nuovi rapporti grazie ad una sempre maggiore inclusione nella vita del quartiere.
Non sono mancate le difficoltà: c’è chi è restato chiuso fuori casa; chi ha sperimentato la vita notturna con qualche delusione; chi ha perso la testa per una ragazza, chi non sapeva più come gestire nella nuova situazione i rapporti con la propria famiglia. Ostacoli che a ben vedere, possono fare parte della vita di tutti e che piano piano anche i protagonisti di questa storia hanno superato. Oltre alle nuove amicizie, al fortificarsi del loro rapporto, allo sperimentare nuove emozioni talvolta contrastanti, “l’aspetto più significativo – afferma Osvaldo Filosi, responsabile del progetto per la cooperativa La Rete – è la loro crescita personale e il loro energico e costante impegno perché tutto funzioni. Sono sempre riusciti a mettere da parte i loro screzi, ad aiutarsi e a prendere decisioni cercando di conciliare le loro necessità.”
Un percorso di inclusione possibile grazie al loro sforzo e a quello degli educatori che li sostengono e li seguono con visite periodiche; della cooperativa che ha ricercato l’alloggio idoneo e ha raccolto le risorse economiche necessarie; delle famiglie che hanno aderito convintamente al progetto. Dato quest’ultimo niente affatto scontato perchè per i genitori di persone con disabilità non è sempre facile immaginare che i propri figli possano farcela senza il loro aiuto. Per anni e anni li hanno accompagnati e sostenuti nell’affrontare le loro difficoltà, hanno garantito cura e protezione muovendosi in un contesto non sempre pronto ad accogliere le fragilità e capace di vedere oltre. La protezione rischia a volte di produrre una reciproca dipendenza che impedisce di vedere un futuro, in tutto o in parte, autonomo.
Non è stato così per Lucia Pintarelli mamma di Nicola: “fin da piccolo l’ho spinto a fare quello che facevano gli altri, a provare, rischiare. E lui lo ha fatto sapendo che se qualcosa non andava poteva rivolgersi a me e a mio marito. Così ha imparato a muoversi in autobus da solo, ha trovato un lavoro e così via. L’autonomia raggiunta ad un certo punto è diventata il desiderio di andare “fuori di casa”, avere una vita propria. Mio marito ed io abbiamo deciso di aiutarlo: nei fine settimana abbiamo cominciato a lasciarlo da solo a casa con compiti da fare come portare a spasso il cane, farsi da mangiare e così via. Stavamo via all’inizio un giorno, poi anche la notte e poi l’intero week end. Ed è così che ci siamo resi conto che Nicola era pronto. Il progetto de La Rete ci ha dato – a noi, ma soprattutto a lui- l’opportunità di realizzare il suo desiderio. Non è stato semplice staccarsi, all’inizio un po’ d’ansia da parte mia c’era, ma poi è passata vedendo che tutto andava bene e che se anche c’erano delle difficoltà, come capita nella vita di tutti, Nicola e i suoi compagni le superavano”.
Intervista a Carlo Francescutti, coordinatore dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità – Ottobre 2016
Una nuova via è possibile, è questo il messaggio uscito dal convegno dedicato a “Disabilità e comunità” organizzato dalla Cooperativa Sociale La Rete in collaborazione con Con.Solida e altri enti istituzionali e non. Crisi economica, calo delle risorse pubbliche, aumento dei bisogni, famiglie che non sono più quelle di un tempo. Tutto questo richiede (anche) ai servizi di cambiare. Come farlo è la domanda che abbiamo rivolto a Carlo Francescutti, coordinatore dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, ospite del convegno insieme a Maurizio Colleoni referente scientifico del network nazionale Immaginabili Risorse.
Dottor Francescutti, facciamo innanzitutto il punto della situazione: come stanno oggi le persone con disabilità?
Le ricerche epidemiologiche e sociali più recenti dimostrano che sono ancora fortemente discriminate, basti pensare che le persone con disabilità intellettiva, che sono quelle di cui mi occupo, hanno una aspettativa di vita di 10 anni inferiore al resto della popolazione. Ancora oggi in quasi tutti i Paesi faticano a ricevere cure primarie di prevenzione adeguate. Circa il 25% di loro sviluppano un problema di tipo comportamentale, dato che sale al 70% nelle istituzioni tradizionali residenziali. Infine rispetto alla popolazione generale hanno un rischio 10 volte maggiore di subire abusi o violenze. È per questo che è importante rimettere al centro dell’attenzione la Carta dell’Onu per persone con disabilità.
Cosa afferma questa dichiarazione?
Ricorda che le persone con disabilità hanno una legittima attesa di vedersi riconosciuti come cittadini alla pari degli altri ed esorta a costruire le condizioni per una società più giusta. Non è un caso che, da un lato il termine riconoscimento sia il più ricorrente (ben 45 volte!), dall’altro la definizione di disabilità si riferisca ad una menomazione fisica, psichica o intellettiva che in interazione con le barriere genera una disuguaglianza. La Carta si rivolge non solo agli Stati, ma anche ai singoli cittadini: senza un cambiamento nella relazione tra le persone non ci sarà nessun progresso politico e istituzionale, nemmeno nelle nostre organizzazioni.
Rispetto ai servizi che si occupano di disabilità, quali sono secondo Lei gli elementi principali che dovrebbero cambiare?
Il paternalismo, il terrorismo diagnostico e l’assuefazione dei professionisti. Il paternalismo è una delle minacce più grandi per le persone con disabilità in particolare intellettiva, e non vale solo per i servizi. Pensiamo ai genitori che cercano in tutti i modi di proteggere il loro figlio disabile. Verrebbe da chiedersi: cosa c’è di male a cercare di risparmiate a queste persone i dolori, le fatiche, il peso delle decisioni? Il male è grandissimo: perché in questo modo si infilano le persone in un limbo senza via di uscita, in una vita non autentica. E il prezzo da pagare per la persona disabile è altissimo: finisce in un mondo a parte in cui il suo parere non è richiesto e se non ti adatta vuol dire che e lei a non funzionare e quindi bisogna incrementare il controllo e la costrizione. Gli esiti estremi di questo approccio sono un uso spropositato di psicofarmaci e il confinamento in strutture da cui emergono storie di contenzione o di affiancamento uno a uno. Naturalmente ci sono forme di paternalismo più leggere come la commiserazione venata da tratti solidaristici.
Passiamo a quello che lei ha definito terrorismo diagnostico. Cosa intende?
La diagnostica continua a farla da padrona nella testa di molti soprattutto nei servizi sanitari, ma entra anche nel pensiero e nel modo di parlare degli operatori sociali e dei famigliari: finché lo sguardo dell’altro è mediato dalla diagnosi non c’è speranza di liberazione perché fa sparire la persona, essa stessa finisce per identificarsi con la diagnosi.
Infine lei ha parlato di assuefazione dei professioni. Di cosa si tratta?ì
Mi capita spesso di sentire espressioni come: “lavoro da 20 anni con persone con disabilità intellettiva e so già cosa pensano, cosa è utile cosa è buono per loro”. Sono atteggiamenti che si nutrono di presunzione e sono alibi per saltare la fatica dell’incontro. Qualche volte si alimentano della stanchezza di un lavoro certamente faticoso. Dietro questa assuefazione ci sono molti pregiudizi: non c’è infatti evidenza che una persona con disabilità non sia in grado di autodeterminarsi e che non tolleri cambiamenti. Si fa abilitazione e sviluppo solo nella misura in cui il nostro potere di operatori diminuisce e cresce il potere della persona disabile. Questo è il senso autentico della parola empowerment, no? In questo senso la dimensione del potere è fondamentale perche qui è in gioco la nostra capacità di cederlo.
Quali sono gli antidoti a questa situazione?
Il primo è un riferimento valoriale. Se crediamo nell’identità della persona non c’è disabilità intellettiva che tenga. Abbiamo di fronte qualcuno che è un essere umano come noi, è la condizione di uguaglianza. Secondo antidoto è la crescita della conoscenza scientifica. Con le persone con disabilità intellettiva abbiamo impiegato in questi anni solo briciole di sapere. Infine il percorso di riconoscimento di persone con disabilità è strettamente correlato al riconoscimento della capacità e della dignità del lavoro degli operatori: assistenziale, educativo abilitativo. A noi è affidato un grande compito, intrecciare dei destini, costruire avamposti di umanità dove si evidenzi e si dia testimonianza della ricchezza dell’umano e opportunità di speranza per tanti. Se lo facciamo per le persone con disabilità intellettiva lo possiamo fare anche per altre situazioni di vulnerabilità che attraversano la nostra comunità. Il nostro lavoro in questo senso è un lavoro fortemente profetico.